FOCUS DI APPROFONDIMENTO SULLA SOPRAVVIVENZADEL PRIVILEGIO FONDIARIO E SULLA COMPATIBILITA’ DITALE PRIVILEGIO CON LA LIQUIDAZIONE CONTROLLATA

La Corte di Cassazione è stata investita da un rinvio pregiudiziale relativo agli spazi di operatività dell’art. 41 d.lgs. n. 385 del 1993.

La sentenza di riferimento è Cass 19 agosto 2024 n. 22914.

LE QUESTIONI

Il primo quesito sottoposto all’attenzione della Suprema Corte era il seguente: a seguito della entrata in vigore del Codice della Crisi, può sostenersi che il privilegio processuale, accordato al creditore fondiario dall’art. 41 , comma 2, d.lgs. n. 385 del 1999 (TUB), sia ancora operante o tale privilegio deve, piuttosto, considerarsi tacitamente abrogato?

La Suprema Corte, su questo primo punto, ha concluso affermando che il privilegio processuale sancito, per il creditore fondiario, dall’art. 41 TUB debba operare sia quando il debitore è fallito sia quando è stato sottoposto ad una procedura di liquidazione giudiziale sulla base dei seguenti rilievi. 

Le ragioni del dubbio: Il fondamento normativo dell’operatività del privilegio processuale del creditore fondiario si rinveniva nel coordinamento fra l’art. 51 l.f. che, nel sancire il divieto di azioni esecutive e cautelari nei confronti del debitore fallito, faceva salva ogni altra diversa previsione di legge e l’art. 41, comma 2, TUB che configurava la disposizione derogatoria in virtù della quale l’istituto bancario era eccezionalmente autorizzato ad esercitare l’azione esecutiva anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore. Vigente il Codice della crisi è, però, sorto un dubbio. Nonostante l’art. 150 del CCII riproduca il contenuto lessicale dell’art. 51 l. f., ferma la sola sostituzione del termine “fallimento” con la locuzione “liquidazione giudiziale”, l’art. 41, comma 2, TUB non è stato attinto da alcuna modifica sicchè esso continua a prevedere che il creditore fondiario può iniziare o proseguire l’azione esecutiva dopo il fallimento del debitore ma nulla dispone con riferimento al caso in cui il debitore non sia stato dichiarato fallito ma sottoposto alla liquidazione giudiziale. Muovendo da tali rilievi si è, dunque, prospettato che, ove il legislatore avesse inteso mantenere ferma la previsione dettata dall’art. 41 TUB, avrebbe dovuto novellarla prevedendo espressamente che il privilegio processuale opera, sia in caso di fallimento, sia in caso di liquidazione giudiziale. 

La soluzione del primo quesito e le ragioni che la giustificano.

In termini generali, nessun rilievo assume il disposto ricavabile dall’art. 7, co. 4, della legge delega n. 155/2017, a tenore del quale “La procedura di liquidazione giudiziale è potenziata mediante l’adozione di misure dirette a escludere l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali, anche fondiari nonché a prevedere, in ogni caso, che il privilegio fondiario continui ad operare sino alla scadenza del secondo anno successivo a quello di entrata in vigore del decreto legislativo ovvero dell’ultimo dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega di cui all’articolo”.  È evidente che la delega non sia stata esercitata ma, al suo mancato esercizio, non può ovviarsi in via interpretativa. 

Nessun rilievo assume, inoltre, la circostanza che l’art. 41 TUB non rechi la espressa previsione che esso opera pure in presenza di liquidazione giudiziale. Dirimente in proposito è il fatto che numerose ed ulteriori disposizioni di legge non sono state modificate dopo l’entrata in vigore del Codice della Crisi ma, pur conservando l’originario termine “il fallimento” trovano indiscutibile applicazione anche nell’ambito della nuova disciplina (ad es. artt. 191, 2471, co. 4, 2447-novies, comma 4, c.c.). 

L’imprecisione terminologica è, peraltro, superabile. L’art. 349 CCII, rubricato “sostituzione dei termini fallimento e fallito”, stabilisce, infatti, in termini generali che nelle disposizioni normative vigenti i termini “fallimento”, ”procedura fallimentare”, “fallito” nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni “liquidazione giudiziale”, “procedura di liquidazione giudiziale”, “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale” e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie. Non vi sono, dunque, ragioni che autorizzino a ritenere che l’art. 41 TUB sfugga all’applicazione di tale regola. 

Il secondo quesito posto all’attenzione della Suprema Corte era il seguente: il privilegio processuale accordato al creditore fondiario dall’art. 41 TUB opera anche in presenza di liquidazione controllata?

La Suprema Corte, su questo secondo punto, ha concluso affermando che il privilegio processuale sancito, per il creditore fondiario, dall’art. 41 TUB debba operare sia quando il debitore è posto in liquidazione controllata. 

 Le ragioni del dubbio: prima della entrata in vigore del Codice della Crisi, la procedura di liquidazione del patrimonio regolata dagli artt. 14 ter e segg. della legge nr. 3/2012, che costituisce l’omologo della liquidazione controllata, sanciva il divieto assoluto di esercizio di azioni esecutive individuali dopo l’apertura della liquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato, senza lasciare spazio ad alcuna eccezione, sicchè si poteva ragionevolmente ritenere che il privilegio di cui all’art. 41, comma 2, TUB non trovasse applicazione nell’ambito della procedura. Il Codice della crisi non contiene, però, un’analoga disposizione e anzi, all’art. 270 co. 5, contempla una clausola di riserva secondo cui alla liquidazione controllata “ si applicano l’art. 143 in quanto compatibile e gli artt. 150 e 151 […] “. Muovendo da tali dati normativi vi è chi ha ritenuto che il rinvio operato dall’art. 270, comma 5, CCII all’art. 150 CCII fosse integrale ma, vi è chi, al contrario, ha sostenuto che tale rinvio non sia integrale e, quindi, non operi quanto alla eccezione prevista dall’art. 41 TUB. Inoltre, secondo i sostenitori di tale seconda tesi,  per derogare alla regola dell’improcedibilità delle esecuzioni individuali, sarebbe stato necessario che “una diversa disposizione di legge” fosse dettata espressamente per la liquidazione controllata, mentre invece l’art. 41, co. 2, TUB si riferisce esplicitamente al solo “fallimento”. 

La soluzione del secondo quesito e le ragioni che la giustificano.

La Suprema Corte ritiene che vada preferita la ricostruzione esegetica secondo cui il privilegio fondiario di cui all’art. 41, comma 2, TUB trova applicazione anche nella liquidazione controllata per le ragioni di seguito indicate. 

L’art. 270 comma 5 CCII, nel prevedere che alla liquidazione controllata “si applicano l’art. 143 in quanto compatibile e gli artt. 150 e 151”, opera un rinvio materiale e recettizio ad altra norma, senza eccezioni: si è in presenza, quindi, di una tecnica di produzione legislativa che consiste nell’individuare o nel disciplinare una determinata fattispecie richiamando le disposizioni di un altro atto normativo per esigenze di sintesi. Dunque, l’art. 270, comma 5, CCII va letto come se vi fosse trascritto l’art. 150 CCII oggetto del rinvio, compresa la previsione derogatoria. Né può ritenersi che il rinvio all’art. 150 CCI sia operato in termini di mera compatibilità perché esso è, per espressa previsione letterale,  pieno ed integrale.

Poiché il richiamo all’art. 150 CCII deve intendersi riferito anche alla clausola di riserva contenuta in tale disposizione,  non può seriamente contestarsi che le specifiche deroghe normative al principio generale del divieto di iniziare o proseguire le azioni esecutive disseminate in norme speciali, tra le quali l’art 41, comma 2, TUB, pur se facenti riferimento al solo fallimento, debbano ritenersi applicabili anche alla liquidazione controllata.

L’ ulteriore argomento utilizzato dai fautori della tesi restrittiva, secondo cui se il privilegio processuale fondiario si ritenesse opponibile anche alla liquidazione controllata, si violerebbe il divieto di applicazione analogica di norme eccezionali sancito dall’art 14 prel. c.c., non convince. Sebbene l’art. 41 TUB rappresenti una norma eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica la sua applicazione alla liquidazione controllata non consegue a un procedimento di integrazione analogica, ma è frutto della composita operazione di rinvio normativo sopra descritta. 

L’approdo interpretativo prescelto risulta, infine, corroborato dalla indubbia portata innovativa del CCII, in quanto l’unica differenza esistente tra il vecchio art. 14 quinquies, co. 2, lett. b), l. 3/2012 e il nuovo art. 270, co. 5, CCII è costituita proprio dalla clausola di salvezza. Pertanto, escludere il rinvio alle deroghe al divieto di esecuzioni individuali significa obliterare l’unica novità risultante dal raffronto tra le due fattispecie, avvalorando così un’interpretatio abrogans dell’intervento riformatore. 

Secondo l’indirizzo ormai consolidato del giudice della nomofilachia, (il riferimento è alla recente  Cass. 14 marzo 2024, n. 6873), il pignoramento immobiliare configura una fattispecie a formazione progressiva, composta da due adempimenti, differenti quanto a modalità ed effetti: la notificazione dell’atto, da compiersi ex art. 555 c.p.c. con la contestuale ingiunzione rivolta dall’ufficiale giudiziario al debitore, la quale segna l’inizio del processo esecutivo e determina il sorgere del vincolo di indisponibilità sul bene staggito; la trascrizione del medesimo nei pubblici registri immobiliari, per effetto della quale il pignoramento produce gli effetti sostanziali di opponibilità nei riguardi dei terzi e di pubblicità notizia nei confronti dei creditori concorrenti.

Il pignoramento non viene, dunque, ad esistenza se non è mai stato notificato (ipotesi quest’ultima che si differenzia da quella in cui la notificazione si è perfezionata e, purtuttavia, essa è affetta da nullità).

Il pignoramento non diventa opponibile ai terzi se non è stato trascritto.

La trascrizione è, infatti, l’elemento perfezionativo del pignoramento immobiliare, teleologicamente destinato, combinando i propri effetti con la trascrizione del successivo decreto di trasferimento, a preservare la fruttuosità dell’acquisto (a titolo derivativo) del diritto immobiliare staggito ad opera dell’aggiudicatario o dell’assegnatario.  

COSA ACCADE, DUNQUE, SE IL PIGNORAMENTO NON E’ MAI STATO NOTIFICATO O, PUR NOTIFICATO, NON E’ STATO TRASCRITTO?

PRIMA IPOTESI:

Se il pignoramento non è stato notificato al debitore tale vizio determina l’inesistenza del primo atto esecutivo e può essere rilevato anche di ufficio dal giudice dell’esecuzione. Ciò comporta, pertanto, che pure il custode giudiziario e il professionista delegato debbano segnalare la circostanza al giudice con le loro relazioni informative (in tal senso, di recente, Cass. 27 novembre 2023, n. 32804 che conferma Cass. 6587 del 2021)

SECONDA IPOTESI:

Può ancora verificarsi che la trascrizione non sia stata effettuata. Se la trascrizione non risulta eseguita, il giudice non può disporre sull’istanza di vendita e deve, pertanto, dichiarare improcedibile, per causa atipica, l’espropriazione immobiliare (in tal senso Cass. 14 marzo 2024, n. 6873).

Restano, però, alcuni dubbi interpretativi.

Occorre stabilire se esista un termine entro il quale è necessario dare prova della trascrizione del pignoramento; è opportuno, inoltre, stabilire se tale prova debba essere data necessariamente con il duplo della nota.

Sulla questione del termine è agevole evidenziare che la soluzione dipende dalla interpretazione da attribuire all’art. 557 c.p.c.. 

Se si accede alla tesi della necessità della produzione della nota di trascrizione deve ritenersi che il termine ultimo sia quello fissato dall’art. 557 c.p.c..

Se si ritiene che la nota di trascrizione non debba essere prodotta al momento della iscrizione a ruolo può sostenersi che essa possa essere versata in atti con l’istanza di vendita, ma non oltre.

Si allega Cass. n. 2176 del 2024. 

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